Nell’“Obra” del padre
L’Opus Dei dopo la canonizzazione del fondatore, Josemaria Escrivà. Silenzi e presenza nella Chiesa. Uomini e opere, apostoliche e non. Africa e Usa, nuove frontiere
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La donna in grigio s’abbassa, lieve, sulla lapide di marmo nero. Sfiora con le labbra la scritta d’ottone, “el padre”, fa il segno della croce e s’allontana. L’ora delle visite per il personale di servizio femminile è finita, nella cappella sotterranea. Lentamente, in silenzio, le numerarie tornano ad affaccendarsi a Villa Tevere. “La casa”, come la chiamava Josemaria Escrivà De Balaguer da quando, nel 1946, la scelse come sede centrale dell’Opus Dei. E come ancora definiscono i suoi fedeli l’ex ambasciata d’Ungheria: un numero imprecisato di migliaia di metri quadri, più sale di preghiera che saloni da pranzo, come amava dire “el padre”. Ma le sue ceneri non sono custodite nella catacomba personale fattasi costruire in vita. Lì riposano i resti mortali di Alvaro del Portillo, suo assistente e successore nell’Opera per un ventennio, fino al ‘94. Quando il bastone di comando alla testa dell’Obra è stato raccolto dal suo segretario personale, Javier Echevarrìa Rodriguez. I resti del fondatore, invece, sono incastonati nell’altare della cappella al piano superiore, al livello della strada, nella chiesa prelatizia di Santa Maria della Pace. Fuori, il traffico ingorga via Bruno Buozzi, ai Parioli, cuore della Roma-bene. I passanti scivolano senza degnare d’attenzione l’anonimo portoncino marrone, niente targa e nomi al citofono, al civico 73. L’ingresso principale della villa. Sede dell’organizzazione cattolica che, ad un anno dalla canonizzazione del suo fondatore, nell’ottobre del 2002, vede coronarsi un osteggiato percorso di fede e di potere all’interno della Chiesa di Roma e nel mondo.
Un’occhiata al caleidoscopio di lingue e colori di piazza San Pietro, nei giorni che hanno consacrato padre Escrivà agli onori degli altari, bastava a capire quanta strada abbia percorso l’opera intravista dal prete di Barbastro al chiuso d’una stanza conventuale, nella Madrid del 1928. La 468° canonizzazione voluta da Giovanni Paolo II ha raccolto oltre 200mila fedeli di 84 nazioni – un buon terzo italiani, gli altri equamente divisi fra l’Europa e il resto del mondo – tenute a bada da 1.850 volontari del’Opus, diretta televisiva su 29 emittenti nei cinque continenti e sul sito internet della Santa sede, traduzione simultanea nelle maggiori lingue sulle frequenze di Radio Vaticana, un altro sito ad hoc sulla santificazione, libri e mappe per non sbagliare sulla strada della santità. E ancora notiziari, loghi su progetti mirati come Harambee 2000, per lo sviluppo dell’Africa, in bella mostra dalle tesserine Tim. Un capolavoro organizzativo e di marketing firmato Mcm. Giancarlo Polenghi, amministratore delegato dell’agenzia fiorentina – Volvo, Barilla, Eukanuba nel pacchetto clienti – nonché numerario dell’Opus, spiega così le ragioni del successo: «Bisogna avere una mente laicale e positivamente anticlericale, come nella natura stessa dell’opera. E poi la nostra è stata una scelta etica più che di mercato, non abbiamo fatto questo a scopo di lucro. Abbiamo recuperato le spese, ci basta. Quanto alla fortuna del messaggio del padre, la riscoperta dell’ordinario è quel che serve oggi, nella chiesa e nel mondo. L’idea di santificare il lavoro come strumento per arrivare a Dio è il mezzo per aprirsi ai tempi moderni. Impegno e intervento divino. Eccola, se vogliamo, la chiave del successo». Risultato, il prodigio mediatico che rimbalzava sui 13 megaschermi nella piazza. Sintetizzato dai commenti entusistici di Massimo D’Alema: «Escrivà, un simbolo» e Pierferdinando Casini: «Un risarcimento dopo anni di ingiustizie» sul sagrato. Un miracolo tale da far impallidire anche quello operato da monsignor Flavio Capucci, postulatore della causa di santificazione di Balaguer, come già di beatificazione, nel ‘91. E se quello fu un primo, tangibilissimo passo verso il riconoscimento d’uno status acquisito dall’Opera all’interno della chiesa che ancora sollevava voci di dissenso, oggi queste sembrano spegnersi, anche tra i fedeli e le gerarchie ecclesistiche tradizionalmente “contro” l’operato del nuovo santo. Annichilite dal peso assunto dalla sua opera, tra le mura del Vaticano e ben oltre.
L’atteggiamento di Maria del Carmen Tapia, per lunghi anni a stretto contatto del “padre” nella centrale romana, aspramente critica verso l’Opera dopo esserne fuoriuscita, è sintomatico. «Cosa posso dire, stando nella chiesa?», risponde da Santa Barbara, in California, l’ex numeraria, «che non si sarebbe dovuto fare santo per il suo carattere duro, persino violento? Con la canonizzazione del fondatore hanno ottenuto tutto, non vedo per cos’altro possano lottare. Forse cominceranno a lavorare più tranquillamente, alla luce del sole. Sono molto lontana, ora, ma credo che la situazione all’interno sia cambiata. Quantomeno le persone possono parlare con le famiglie». Benché più aperta, nell’Opus a tutt’oggi è più facile entrare che uscire. A riprova di ciò, è sorta negli Stati uniti un’associazione, l’Odan – Opus dei awareness network – che da Pittsfield, nel Massachusetts, fa controinformazione pubblicando pure una “guida alla prevenzione dell’affiliazione” e, in Italia, ha il suo alter ego nell’associazione “famiglie colpite dall’Opus dei”.
Anche dai reduci della Teologia della liberazione s’alzano ancora parole critiche. Come quelle di Giulio Girardi: «Questa canonizzazione rappresenta la scelta della modernizzazione attraverso i poteri forti. Non occorre essere teologi per capirlo. Forse contribuirà ad accrescere il potere economico e politico della Chiesa, ma non ha niente a che vedere col messaggio evangelico. Dov’è la predilezione per i poveri, lo spirito di fratellanza? Del resto questa stessa Chiesa non è più quella di Gesù». Un dissenso ormai ai margini, quello del padre salesiano, da tempo sospeso “a divinis”. Una teologia, quella che predicava la liberazione dal bisogno per le masse del Sudamerica, spazzata via dalla ritrovata alleanza tra regimi autoritari e apparati ecclesistici che ha portato alla metà degli anni ‘90 a piazzare nelle diocesi sospette di filomarxismo, come quella di Helder Camara, in Brasile, vescovi dell’Opus. Quali Fernando Saenz Lacalle al posto dell’assassinato Oscar Romero, in Salvador.
Come l’ex “Chiesa dei poveri” in America Latina, l’intera “ecclesia” sembra ridotta al silenzio. A partire dal paoliniano Giancarlo Rocca, direttore del Dizionario degli istituti di perfezione, da sempre critico verso l’Opera: «Commentare la canonizzazione? No, non posso proprio». Dalla sede della Civiltà Cattolica, il quindicinale gesuita che di fatto rappresenta la voce del papa dal 1850 e all’argomento dedica uno dei suoi numeri più recenti, spiegano perché. «Padre Rocca è come un drappo rosso davanti al toro, per l’Opus – dice un autorevole padre che preferisce restare anonimo – eppure ha solo pubblicato i loro statuti sul suo dizionario. Il problema? Ma la loro fissazione della segretezza. Nessuno conosce i loro membri nella curia, a livello intermedio. E poi le loro pratiche di mortificazione della carne». L’uso – volontario – del cilicio e della “disciplina” per flagellarsi, docce fredde e pancaccio per fortificare lo spirito. Vecchie pratiche introdotte dal fondatore. Vecchia ruggine, quella tra i gesuiti e l’Opera. Risalente ai primi tempi, tra Escrivà e il suo confessore, della Compagnia di Gesù. «Cose vecchie – taglia corto il padre gesuita – posso dire che l’idea di santificarsi nel mondo non è certo venuta a loro. L’ha avuta il nostro ideatore, Ignazio da Loyola, secoli fa. Oggi ci accusano di esserci ammorbiditi, mentre loro mantengono una mentalità integralista nel loro impegno militante. Che il loro peso nella Chiesa sia destinato a crescere è fuori discussione, tantopiù con un pontefice conservatore come presumibilmente sarà il prossimo. Ma la Radio Vaticana no, quella non l’avranno mai».
Al silenzio fa da contrappunto la presenza nella Chiesa di Roma. Oggi appartengono all’Opus il cardinale di Lima, Jan Luis Cipriani, e una ventina di vescovi. Ma il peso dell’Opera non si misura tanto dalle porpore possedute o negli uffici conquistati, quali quello per l’interpretazione delle leggi con Julian Herranz, la camera apostolica tramite lo spagnolo Eduardo Martinez Somalo, la presidenza del passato comitato per il Giubileo con Roger Etchegaray o la sala stampa diretta dal portavoce Joaquin Navarro Valls, numerario, come ricompensa ai buoni uffici condotti da corrispondente del quotidiano filomonarchico spagnolo Abc. Oltre, naturalmente, alla prelatura e al vicariato per l’Italia, retti da Echevarrià e da monsignor Lucio Norbedo. Il vero potere si basa sulla conquista dei posti medio-bassi dell’apparato e sull’assenso, o quanto meno sulla benevolenza, di buona parte della curia che conta. Dal cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei e vicario di Roma, all’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, tra i papabili, autore di una entusiastica prefazione dove si legge, tra l’altro: «Nel nostro tempo si sente l’esigenza di ritrovare la sintesi tra la fede e la vita, tra il Vangelo e la cultura… In questo senso l’insegnamento e l’opera di san Josemaria Escrivà sono una vera luce nel cammino della Chiesa». Un cammino – come il titolo dell’opera più famosa tra la decina scritte da Escrivà, stampata in milioni di copie e tradotta in oltre 40 lingue – che molti hanno seguito e agevolato. Dal segretario di Stato Angelo Sodano, ex nunzio apostolico in Cile e amico di Pinochet, per il quale ha perorato verso il governo britannico la mancata estradizione in Spagna, a Pietro Palazzini, porporato chiave per l’elezione di Wojtyla al soglio pontificio.
«Quella elezione – ricorda il vaticanista Giancarlo Zizola – non includeva solo una spallata “religiosa” al sistema sovietico, ma la riconquista del ruolo pubblico del cristianesimo. Il cardine del suo regno è stato il recupero della centralità della fede nella società moderna, della missione della chiesa non più esiliabile in una nicchia sacrale. La convergenza tra il propramma di restaurazione papale concordato in quel conclave e l’Opus Dei è stata oggettiva. Nessuna organizzazione meglio di questa, plasmata da Escrivà come forza d’urto clandestina durante la guerra civile in Spagna, era adeguata alla difesa e alla ricostituzione degli interessi della cristianità insidiati dalla modernità socialista, attraverso una penetrazione nelle aree influenti della società, con lo scopo professato di favorire lo sviluppo della santità tra i laici. Quale arcivesco di Cracovia Wojtyla era ben noto all’Opus, avendone ricevuto aiuti nella resistenza comunista, come pure Solidarnosc, ed essendo stato accolto nelle sue residenze romane e all’estero. A differenza di quanti pensano, nella Chiesa, che sia più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli, essi privilegiano il rapporto coi poteri, i saperi e gli averi forti. Allargano la cruna dell’ago, oliandola con le elemosine degli Epuloni, per far passare non solo i cammelli, ma le carovane dei nababbi e i consigli di amministrazione. Bisogna vedere se il peso dell’Opera sarà esorbitante rispetto ad altre componenti della Chiesa. Paradossalmente, con la canonizzazione di Escrivà il papa polacco potrebbe aver chiuso in qualche modo i conti col passato, avere le mani più libere nel suo magistero, come dimostrerebbe la critica al neoliberismo e alla guerra preventiva di Bush. E poi chi l’ha detto che il nuovo papa sarà un conservatore? Magari sarà Oscar Rodriguez Maradiaga, cardinale di Tegucigalpa».
L’accesso alle stanze dei bottoni, come ai media, altra vecchia storia. Secondo varie stime, l’Opera avrebbe influenza su 630 quotidiani e riviste, 52 catene televisive, 179 università, dozzine di centri e associazioni. Giuseppe Corigliano, “Pippo” per gli amici, se la ride. «Ah, Ah, ci accusano di controllare la stampa mondiale, l’economia, che altro? Abbiamo qualche simpatizzante, non dico di no, ma dove sarebbero le nostre legioni? Non siamo legati a nessuna struttura politica o economica, non abbiamo neppure una scuola di teologia. Insegniamo solo ad avere una coscienza, dunque una libertà ed una responsabilità personale. Siamo lontani anni luce dallo spirito curiale della Chiesa, anzi siamo la pietra tombale del suo potere temporale. Se dovessimo preoccuparci del successo, del potere, ci saremmo giocati la vita per quattro cazzatelle. Ma è in gioco la fede, l’eternità, la nostra idea di santità. Siamo dei martiri, ecco la verità, accusati di essere l’opposto di quel che siamo. Combattiamo l’idea che il laico sia un cattolico di serie B, il mondo un luogo di perdizione e il capitalista irredimibile. Ma facciamo apostolato con tutti, ci interessa tanto il banchiere di Wall Street che il contadino delle Ande. Vogliamo solo far aumentare il tasso di fede nelle persone. Senza segretezza o fanatismi. E non c’è pericolo di plagio nei nostri centri, per chi è sano di mente». Sgajattola via nel traffico delle feste il portavoce dell’Opera in Italia, sgambettando sulla sua bicicletta. Una vita spartana da numerario, un’allegria partenopea che sfuma nella cordialità accorta.
Uomini e opere
Come lui, sono oltre 12mila i numerari che vivono nelle strutture dell’Opera, versando ad essa ogni guadagno e ricevendone in cambio il necessario per vivere. Obbedienza, frugalità e castità gli obblighi – guai a chiamarli voti – richiesti. Se donne si occupano del lavoro domestico nelle varie sedi. La maggior parte dei fedeli dell’Opus sono però soprannumerari: rappresentano il 70% degli 84mila membri che la prelatura conta nei cinque continenti (48.700 in Europa, dei quali 4.000 in Italia, 29mila nelle Americhe, 4.700 in Asia e Oceania, appena 1.600 in Africa, terra di conquista). A differenza dei primi possono sposarsi, dunque vivono in famiglia contribuendo al mantenimento dell’organizzazione, oppure aggregati per esigenze professionali nei centri della prelatura. Chi si fa maggior carico delle spese, come del lavoro di formazione in questi, sono però i cooperatori: un numero indefinito di persone appartenenti ad ogni ceto sociale – ma in genere più che benestanti, per garantire disponibilità e competenze – e, fatto rimarchevole, ad ogni confessione, non necessariamente cattolica e neppure cristiana. Anche un musulmano, un ebreo o un buddista, come pure un ateo, possono infatti dare una mano e un contributo nelle tante attività dell’Opera. Non ultimo nel mantenimento delle sedi e nel sostentamento degli ecclesiastici – circa duemila, tra diaconi e presbiteri – appartenenti alla prelatura (tramite la cosiddetta Società sacerdotale della santa croce) anche se “incardinati” alle varie diocesi.
Dopo le sigle e i numeri, i nomi. Solo per stare in Italia orbitano nell’Opera, a vario titolo, esponenti politici quali l’immarcescibile Giulio Andreotti – difensore d’ufficio dell’allora beato Escrivà dalle accuse della stampa internazionale, nel ‘91 – Francesco Cossiga, assiduo alle cerimonie, Ombretta Fumagalli Carulli, Adriana Poli Bortone, Marcello Dell’Utri che all’amato collegio del beato Capizzi, a Bronte, ha donato una targa con dedica, poi rimossa. Antonio Fazio, presidente di Bankitalia. I costruttori romani Roberto Mezzaroma e Alvaro Marchini, frequentazioni politiche diverse ma una comune pulsione benefattrice. Dai chirurghi quali raffaello Cortesini agli storici come Giuseppe Romano, dagli attori come lo scomparso Alberto Sordi, agli uomini d’affari “vicini” al centrosinistra come Carlo Borgomeo, ex numero uno di Sviluppo Italia, molte sono le personalità che subiscono il fascino di sant’Escrivà, aprendo cuore, mente e tasche ai suoi emuli. Non esclusi ovviamente i giornalisti, da Alberto Michelini (numerario, presidente mancato della regione Lazio e autore di soporiferi documentari sulla vita del santo) ad Andrea Torniello, vaticanista del Giornale, al quale la Piemme (editrice vicina a Od) ha appena publicato un’opera agiografica sul nostro. Da Ettore Bernabei, già presidente Rai, a Valerio Fiorespino, attuale responsabile delle risorse umane della Tv pubblica. Senza dimenticare Valerio Messori, che all’Opus ha dedicato un compiacente libro edito dalla Mondadori, pubblicizzato finanche nella home page del sito di Alleanza nazionale. Tutti, rivendica giustamente la prelatura, diffondono lo spirito dell’Opus: la santificazione del lavoro. Uno spirito che si trasmuta in opere.
«Le opere apostoliche collettive e le fondazioni create dai suoi membri – spiega al riguardo il teologo cattolico tedesco Peter Hertel – si infiltrano nella società. Il loro obiettivo va molto al di là della pia santificazione della vita quotidiana. Esse devono cristianizzare le istituzioni, la scienza, la cultura, la politica, le relazioni sociali. Tutto deve essere cristiano come espressione sociale della fede. Per cristianizzazione si intende cattolicizzazione, che sfocia anche nell’emarginazione dei dissenzienti nella società. Dagli anni Cinquanta in poi, il metodo è uguale dappertutto. L’Opus dei cerca di conquistare personalità di primo piano per accedere a una determinata cerchia, a partire dalla quale si muove verso il basso. Questo modello è stato sperimentato per la prima volta da Escrivà: negli anni Quaranta, invitato dal vescovo di Madrid, tenne alcune giornate di riflessione per i coniugi Franco».
“Le opere apostoliche” sono quelle che “godono della garanzia morale della prelatura”, come recitano gli statuti dell’Opus, tanto pubblici quanto poco pubblicizzati. Vale a dire che, benché rigidamente controllate da numerari dell’Opus, la loro gestione, ed ogni responsabilità connessa, spettano alle persone che le hanno costituite, non all’Opera stessa. Comprendono collegi, atenei, istituti di formazione sparsi per il mondo. Qualche esempio. L’università di Navarra, fondata nel 1950, comprende una ventina di facoltà e da essa dipende l’Iese, Istituto di studi superiori d’impresa, di Barcellona. Sula sua falsariga sono sorti gli atenei latinoamericani a Piura, in Perù, e a La sabana, in Colombia, nelle Filippine e il campus biomedico di Roma. Dove opera, come a Milano, la Fondazione universitaria Rui. A Chicago il Midtown sports and cultural center offre per i giovani neri o ispanoamericani dell’area la possibilità di fare sport e costruirsi un futuro. A Kinshasa, in Congo, l’ospedale di Monkole offre assistenza medica e avvia le giovani congolesi all’esercizio della professione infermieristica. A Manila, la scuola alberghiera di Punlaan rappresenta un’oasi nel mare della disoccupazione e del sommerso asiatico. Lo stesso può dirsi per il centro Toshi a ovest di Città del Messico dove, tra l’altro, s’insegna amministrazione pubblica agli indios. Non tutti i fili d’oro risplendono, ovviamente. La fondazione Fwm di Berlino, ad esempio, qualche tempo fa si è vista bocciare dalla Commissione europea un “progetto pilota per la gioventù polacca” perché i cooperatori in loco non erano tali e i preventivi piuttosto gonfiati. Piccoli sassolini in un ingranaggio che offre non solo formazione e lavoro, identità sociale e sostegno spirituale, ma la via alla santità in terra.
Mirabile, in questo senso, è l’operato del centro Elis di Casal Bruciato, a Roma. Inaugurato alla presenza del fondatore da Paolo VI alla metà degli anni ‘60, il complesso sorto nell’allora periferia decantata da Pierpaolo Pasolini, incarna già nell’acronimo – educazione, lavoro, istruzione, sport – i mezzi usati da un centinaio di operatori per trasformare ragazzi di strada in operai e quadri modello. I duecento giovani che affollano le aule dove si tengono lezioni di leadership e prove tecniche di consigli d’amministrazione, come i laboratori di meccanica e multimediali, d’oreficeria o orologeria, provengono dalla borgata come dal profondo sud dell’italia e del mondo. Entrano a 15 anni per uscirne a 18 non solo con una solida preparazione professionale, ma con una marcia davvero in più. Il senso della disciplina e del sacro verso il proprio operato, lo spirito di sacrificio connesso alla capacità di fare garantiscono a chi esce dai cancelli di via Sandri il posto assicurato. Piercing e capelli multicolor cedono il passo a rasature adeguate e colletti abbottonati.
«I nostri tutor formano la persona, non solo il professionista», rivendica orgogliosamente Girolamo Inzerillo, direttore del centro. Ovviamente numerario. Oltre alle lezioni un ricchissimo calendario di corsi, dai cineforum alla pittura, attività assistenziali, sportive e, ovviamente, spirituali – palestre e campi sportivi, come la chiesa, sono a disposizione di tutti – forgiano i ragazzi e coinvolgono il quartiere. «Molto dialogo a tu per tu e alla sera “tertulia”, discussioni collettive, come un tempo davanti al caminetto», dice il direttore. Non pochi tornano ad insegnare gratis sui banchi che li hanno visti alunni, qualcuno resta. «Sono uno, due i ragazzi che ogni anno entrano dell’Opera. Vorrei che fossero di più, ma serve una convinzione soprannaturale. Noi cerchiamo di metterli nella condizione adatta per rispondere alla vocazione». Ma insegnare a esser santi ha un costo. «In lire fanno cinque miliardi l’anno – specifica Inzerillo – a cui facciamo fronte ingegnandoci. Convenzioni con la regione, rette degli studenti e dei residenti universitari, borse di studio delle aziende. Poi ci sono i cooperatori. Grazie a loro sbarchiamo il lunario, anche se siamo in rosso cronico». Il 40 per cento delle entrate proviene da donatori e contributi a fondo perduto. L’Avel, associazione “amici del centro”, tra cui famigliari ed ex alunni, copre i debiti alla fine dell’anno, come il Consel, Consorzio per la formazione professionale superiore – presidente Sergio Bruno, dirigente Rai in pensione; Agip, Ericsson, Peroni, Telecom tra i soci – decide i programmi e fornisce borse di studio e stage. Una rete di sostegno, insomma, che spazia dall’assistenza ai residenti alla decina di progetti in corso, quale Ong, nei paesi in via di sviluppo.
Ma la punta di diamante della penetrazione opusdeistica nel Terzo mondo è l’Icu. L’istituto per la cooperazione universitaria ha anch’esso sede ai Parioli, non distante dalla sede centrale. Venticinque addetti tra personale fisso, part time ed esperti esterni, centinaia di giovani studenti impegnati nei campi di lavoro annuali pubblicizzzati in scuole, università e associazioni di volontariato attraverso la “giornata della solidarietà” videopromosssa da una cassetta commentata fuori campo dal trio comico di Aldo, Giovanni e Giacomo. Un numero incalcolabile di persone coinvolte in progetti di cooperazione allo sviluppo dalla Cina al Medio Oriente, dall’America Latina all’Africa, soprattutto. «Il nostro obiettivo è offrire una visione positiva, non denunciare ma fare», dice Carlo De Marchi, segretario generale dell’istituto, unico numerario italiano tra i dodici membri del Consiglio generale, l’organo maschile di governo dell’Opera. Con questo spirito l’Icu affronta progetti di indubbia valenza sociale e politica, come aziende agricole per drusi e cristiano-maroniti nello Chouf libanese per ricucire le ferite della guerra civile.
«Abbiamo una visione cristiana, ma non confessionale – sottolinea De Marchi – in Libano il nostro progetto coinvolge persone di 16 religioni, in Giordania siamo nei 13 campi profughi plestinesi. Abbiamo lavorato anche coi ribelli musulmani, nelle Filippine. Certo, non coi terroristi». Caratteristica dell’Icu è l’organizzazione di campi di lavoro estivi, per giovani studenti che, autofinanziandosi, partecipano ad attività di volontariato inserite nei progetti. Come la costruzione di latrine nel Nicaragua post sandinista. «Lì abbiamo capito che il sottosviluppo dipende dai singoli, più che dall’essere feudo degli Usa». «Questo viaggio mi ha aiutato a rompere gli schemi, ma non ha cambiato il mio segno politico. E poi capisci l’importanza del dare gratuitamente, del sacrificio per gli altri. Riscopri la spiritualità». Luca e Daniele, poco più che ventenni, sintetizzano al meglio lo spirito e i risultati ottenuti dall’Icu. «È un trionfo, per noi, far capire che non è tutto bianco o nero, che l’impegno personale è possibile sempre», chiosa De Marchi, a trent’anni alla testa dell’Ong con un volume d’affari di 4 milioni d’euro l’anno. Gran parte provenienti da fondi governativi e comunitari, il resto donativi, autotassazioni, “pressing” alle famiglie. «La raccolta fondi è fatta dagli stessi ragazzi – dice – non si parte se non si trovano i soldi. Finora si sono trovati sempre». Ma le vie del Signore non si fermano qui.
Altre opere, meno apostoliche, sono sul conto dell’Opus. Della lotta senza esclusione di colpi alla teologia della liberazione in America latina già s’è detto. Del ruolo centrale nella raccolta dei fondi necessari al salvataggio dello Ior, il banco vaticano coinvolto nel crack dell’Ambrosiano che fece pendere Roberto Calvi dal ponte dei frati neri, nell’’82 a Londra, molto si è detto. Di certo, a pochi mesi dalla morte del banchiere l’Opus si vede approvare dalla Santa sede l’agognato status di prelatura personale – un “abito su misura”, per dirla come Corigliano, che in pratica garantisce piena autonomia decisionale interna alla chiesa e amplifica la proiezione esterna del suo potere – e due anni dopo, quando a monsignor Donato De Bonis trema la mano nel firmare l’assegno di 240 milioni di dollari ai creditori dell’Ambrosiano, uomini dell’Opera sono già nei posti chiave del Vaticano, dall’amministrazione del patrimonio di San Pietro allo stesso Ior, dalla direzione della congregazione dei vescovi alla sala stampa, all’ufficio per le cause dei santi.
Al di là dei “favori” contraccambiati dal pontefice all’Opus, «è dalla metà degli anni ‘80 che questa organizzazione, già potente, si insedia nel cuore del Vaticano», sottolinea Robert Hutchison dal suo eremo svizzero. Corrispondente del Sunday e Daily Telegraph canadesi, il suo vaticinante “Their kingdom come” – il loro regno viene – denuncia le ultime operazioni “coperte” dell’Opera volte a far riconquistare terreno alla “vera” fede. Dal sostegno alla cattolica Croazia nel conflitto contro la Serbia alla lotta contro Omar Hassan al Bashir e Hassan al Turabi, rispettivamente a capo della giunta militare sudanese e del Nif, il National islamic front, reputati vicini alla temuta rete di Al Qaeda. Sullo spirito da crociata dell’Opera, in particolare contro il rinascente integralismo islamico, insiste anche Thierry Meyssan, direttore del “Réseau Voltaire” – autore per i tipi della Fandango dell’“Incredibile menzogna”, documentata denuncia di come nessun aereo sia caduto sul Pentagono, nel fatidico 11 settembre 2001 – che sul suo sito ingaggia da anni la lotta contro «questa lobby dell’ordine morale», in nome dell’illuminismo.
Dall’altra parte dell’Atlantico, Kenneth Woodward continua a denunciare dalle colonne di Newsweek la penetrazione dell’Opera nel cuore politico e finanziario degli States. Con l’apertura del nuovo quartier generale di Manhattan, 17 piani al costo stimato di 43 milioni di dollari, e l’iscrizione tra i suoi membri di Louis Freeh, già direttore dell’Fbi. Eccola, la nuova frontiera dell’Opus: come l’Africa lo è per le anime, l’amministrazione Usa per il potere globale. «Il punto è proprio questo – sottolinea ancora Zizola – la chiesa saprà mediare il suo messaggio evangelico con le spinte dell’Opus, ben inserita in questo modello di sviluppo, o si realizzerà un altro compromesso tra papato e impero, approfittando della globalizzazione per occupare nuovi spazi nel Primo e Terzo mondo, come nel XVI secolo?».
Alla luce di tutto ciò, non appare del tutto ingiustificata la domanda che il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar poneva, già nei primi anni ‘60, agli affiliati dell’Opera: «Non ci sono obiezioni al fatto che voi abbiate un grande potere che, in sé, non è malvagio. Ma che cosa ne volete fare? Quale spirito pensate di diffondere?». Per le stesse ragioni è difficile ridurre l’Opus ad una setta interessata unicamente a spertusare il soglio di Pietro o a fare breccia nei cuori dei banchieri, come ad un esercito di api operaie sulla via della beatitudine. L’influenza e l’onnipresenza dell’Opera si sposano ad una struttura esteriormente non monolitica, apparentemente priva persino di una chiara linea di comando. Non certo riducibile all’omelia di Echevarrià che, a metà gennaio, ha chiuso i festeggiamenti per il centenario della nascita del “santo dell’ordinario”. Ma è nel rigore (a)morale, nel misticismo unito al pragmatismo la vera forza dell’“Obra”. Davvero, «es una question de fé», per dirla come sant’Escrivà. O ci credete o non avete capito, né capirete. Gli amministratori di Jonadi, nel vibonese, i più solerti nel dedicare al nuovo santo una piazza, ci credono. I comitati civici che nella cattolicissima Verona si sono opposti a intitolargli una via, assai meno.